Le relazioni Spettacolari di Silvia Moretta e Vincenzo Centorame, 2016;

In silenzio resta di Silvia Moretta, 2016;

Un percorso originale con una storia complessa di Vincenzo Centorame, 2015;

Le cose oltre le cose di Vincenzo Centorame, 2011;

Mariano Moroni di Enrico Mattei, 2011;

Fantapaesaggi di Maurizio Sciaccaluga, 2004;

Immagini danzanti di Maurizio Sciaccaluga, 2003;

Le relazioni spettacolari

 

Esponendo all’interno dello spazio scenico della moda, uno shopping center, Mariano Moroni si innesta nella riflessione storico-critica della reciproca fascinazione tra arte e moda che perdura, con una sincronia di eventi e di pratiche creative, almeno dalla fine del XIX secolo. Eventi che hanno interessato arte visiva e moda, ma anche design, fotografia, teatro, musica e cinema, «dando origine ad una serie di avvenimenti in cui le arti applicate evidenziano un’estetica enfatizzata dalla sua ricezione di massa» (G. Calò, D. Scudero).

Dal suo canto, l’arte contemporanea, ormai svincolata da canonici luoghi di esposizione e alla ricerca di nuovi spazi alternativi, può “dare spettacolo” all’interno di “cattedrali del commercio”, con operazioni cariche di suggestioni visive e riflessive.
Non a caso proprio la moda, “industria estetica ed estetizzazione dell’industria”, è apparsa come l’estensione de “La società dello spettacolo” (G. Debord): «E’ il principio del feticismo della merce, il dominio della società attraverso “cose sovrasensibili in quanto sensibili” che si realizza in modo assoluto nello spettacolo, dove il mondo sensibile si trova sostituito da una selezione di immagini che esiste al di sopra di esso, e che nello stesso tempo si fa riconoscere come il sensibile per eccellenza. (par. 36)».
Il rapporto è complesso e non si risolve in una direzione univoca: se l’arte per la moda è continua fonte di immagini e spunti creativi cui attingere, l’arte che rappresenta l’uomo non può non rappresentare anche le cose dell’uomo. 
Nelle “relazioni spettacolari” connesse dall’esposizione di Moroni, l’arte visiva si distingue dalla moda per la sua peculiarità di non passare mai di moda, per il suo non soffrire di obsolescenza: le scarpe, le camicie, gli abiti, che sono le cose degli uomini nelle opere di Moroni, si caricano di una valenza segnica sovratemporale. L’esposizione rappresenta dunque un’opportunità per riflettere sulla funzione dell’immagine artistica e sulla sua forza di comunicazione in un contesto già ricco di sollecitazioni visive. Le opere, esposte con logiche di accostamento cromatico-estetiche, sono ostentate in una sorta di confronto tra  manichini, espositori  e  capi di abbigliamento. 
Per loro natura, la moda e le immagini della pubblicità della moda sono catalizzatrici di attenzione, eppure la mostra non ne viene fagocitata, in quanto propone, attraverso un’iconografia laica, obiettivi umani largamente condivisibili e intellegibili; uno sguardo “alto e pacificante” su ciò che perdura. 

Silvia Moretta

 

 

É una sorta di contaminazione all’incontrario quella di Mariano Moroni. 
Oggi viviamo la completa egemonia ed il trionfo su tutta la linea della mercificazione della vita e di assenza del gusto estetico, soprattutto nei riti del quotidiano, quella esperimentata in questa occasione va esattamente nella direzione opposta. 
L’arte entra nel regno del commercio e del consumo in cui vivono in molti senza fare la fatica di pensare. Un consumo contaminato dall’arte diventa un consumo critico, un ribaltamento dell’assioma che ci vuole ridurre a riti marginali. 
L’esperienza artistica, soprattutto quella di Moroni, è una provocazione ed una chiamata in causa dell’intelligenza, della forza di guardare oltre le apparenze e scoprire il senso profondo anche in un vero, ‘apparente’ mondo parallelo. 
Mariano Moroni, maestro dell’evocazione attraverso gli oggetti ed i simboli del mondo del lavoro, ha centrato la sua attenzione su un altro universo tutto centrato sulla contemporaneità, sui nuovi oggetti del mondo contemporaneo e li ha letti da par suo, trovando nuove chiavi interpretative senza abbandonare i registri che fanno uno stile molto personale. 
D’altronde si cimenta, già da molti anni e con un notevole consenso, con il mondo variegato delle imprese, che hanno radici nelle regioni vicine, ma che hanno da lustri una dimensione internazionale. Il linguaggio e gli strumenti della musica, quelli dell’uso della quotidianità, quelli delle “cattedrali” moderne, dove si consumano i riti del grande commercio per cui emerge un uomo panconsumatore.
Non si tratta di uno scontro tra linguaggi. Al contrario siamo al cospetto di un incontro fondato su realtà che fanno parte della nostra vita quotidiana nella sua accezione più abituale e distintiva. I colori delle opere dell’artista si sposano con quelli di una serie di merci-oggetti del tutto particolari. 
Non bisogna mai dimenticare le grandi rassegne realizzate all’estero sulla storia del “Fashion”, come quelle a Londra al Vittoria ed Alwbert Museum, nelle quali con capi di abbigliamento e capi di arredamento, sono stati ricostruiti una parte importante della storia dell’uomo e della donna negli ultimi secoli. 
Iniziative prese molto sul serio, come deve essere presa in grande considerazione questo evento che ha solo il piccolo difetto di arrivare, da noi, un po’ in anticipo.

Vincenzo Centorame

In silenzio resta

di Silvia Moretta

 

In silenzio restaNello straordinario contesto di Santo Stefano di Sessanio (Aq) è esposta, in posizione isolata, la grande tela “6 aprile” di Mariano Moroni. Una monumentale opera che come una sorta di maestosa pellicola fotografica ha impresso su di sé le suggestioni ricevute dall’artista dal violento terremoto che il 6 aprile 2009 ha scosso la terra aquilana.   

Una lunga tela, come lungo è stato percepito il terremoto, che lo sguardo attraversa orizzontalmente, senza direzione obbligata, attivando un processo attivo e selettivo. Oggetti noti, di memoria immediata, reminiscenze, materia pittorica che conduce all’immateriale, o che riveste altra materia, un paesaggio della mente, la deposizione muta di oggetti del vissuto quotidiano che ormai non servono più, a nessuno. 

L’arte di Moroni muove dal sensibile. L’opera si impone per il forte impatto cromatico dato dai bruni e dai marroni, per le pennellate di vernice striata che lasciano intravedere passaggi chiaroscurati, come dei raggi che modulano la raffinata monocromia del fondo, senza che la luce ne venga definita volumetricamente. In piena coerenza con i “Fantapaesaggi” e con “Le cose oltre le cose”, l’opera di Moroni parla “di perdite, di smarrimenti, di distruzioni, ma niente nella composizione conduce verso la disperazione, l’angoscia o l’afflizione. Il dramma è quasi cantato, attraversato con malinconica rilassatezza” (Maurizio Sciaccalunga).

Assente silenzioso è l’uomo, rievocato nei suoi oggetti, toccati, usati, raccolti in anni di lavoro e improvvisamente catapultati ammassati sui pavimenti tremanti, infine abbandonati. 

Moroni, come un platonico Demiurgo, attinge al Caos quale luogo primigenio della materia per la formazione di un mondo ordinato. Ecco quindi che le cose ritrovano un nuovo ordine, un intatto raggruppamento, rievocando la funzione del prima, e del durante la catastrofe. La scala, che sottolinea l’andamento orizzontale della tela, conferendole drammaticità, non è più elemento verticale, salvifico, usato per salvare o per scappare, ma diviene una sorta di abaco, dove gli oggetti risollevati e ormai inutili trovano un inedito punto di appoggio. Non ne viene negato né ingentilito l’aspetto, ma assume di fatto una vita propria, tanto da non poggiare a terra, ma da restare sospesa, simbolo dell’attesa immobile e della sospensione delle cose vissute, cui il terremoto ha costretto. Nega la direttrice privilegiata della tela, la disposizione verticale di un’incerata logora, dipinta d’azzurro, cui è ancorata una corda spezzata, anch’essa sospesa. Un rigido panno che per mostrarle, le cose, si fa da parte, arrotolandosi per metà. Allude a un cielo scuro, ma è impregnato del ricordo del suo utilizzo quale primo riparo dell’emergenza post sisma.

L’opera è pervasa di un poetico lirismo, il cui ritmo accelera dove primeggia la pittura. Rivelando il legame con la madre terra, in un cielo nuvoloso fatto anch’esso di bruni e di marroni, che delinea senza soluzione di continuità il paesaggio della mente, il richiamo alla terra diviene materico per lo stagliarsi di un bidone di catrame accartocciato, alludente a un monolite di pietra dalla qualità metallica, chiaro rimando alle asperità delle montagne abruzzesi. 

È la straordinaria orchestrazione della luce e dell’ombra che riesce a suggerire allo stesso tempo la forza astraente e ideale del simbolo e la viva realtà dell’accadimento appena trascorso: un sentimento vitale e parimenti nostalgico, affidato alle nuvole che si diradano, alla luce che scorre lieve all’interno del magico circuito delle pennellate.

La bellezza dell’opera di Moroni sta nella molteplicità delle suggestioni in grado di rievocare. Ciò gli deriva dalla natura poliedrica, che gli è propria, e dalla capacità di cogliere la flagranza del simbolo nella contingenza della realtà. La memoria di un’architettura vuota, appena abbozzata, un’altra “cosa” divenuta inutilizzabile, fantasma tra i fantasmi; il senso scenografico della composizione, esaltato da una teatralità caravaggesca; l’immediata, quanto infallibile, capacità di evocazione della dominante sensazione dell’immobilità, della cristallizzazione e sospensione delle cose mute; la sorprendente capacità di rendere visibile ciò che non lo è: un imperativo – urlato dalla terra – divenuto un immutabile status quo: in silenzio, resta.

Un percorso originale

con una storia complessa

di Vincenzo Centorame

 

In questi mesi la città di Milano è, nel suo complesso, al centro di un interesse internazionale in ragione dell’Expo che, pur avendo un tema specifico, ha aperto le porte alla fantasia ed all’immaginazione delle e nelle proposte artistiche. E’ il caso di questa iniziativa dell’associazione Art in the City che accoglie una personale di Mariano Moroni che, partendo dal tema al centro dell’Expo, ci propone un viaggio molto personale sui molteplici aspetti connessi e che ruotano intorno al tema essenziale e dalle importanti implicazioni anche in ambiti per noi sorprendenti. Una personalità, quella dell’artista, nello stesso tempo poliedrica e rigorosa che, in una fase di piena maturità, comincia a tirare le somme della propria esperienza creativa attingendo anche alla memoria ed alle tappe essenziali del proprio personale itinerario fatto di conquiste molto significative in ambiti diversi ma tra loro strettamente in sintonia.

In questa occasione si confronta con un argomento molto importante, dalle tante possibili ricadute in cui si rischia un eccesso di citazioni feuerbachiane per rendere omaggio ad un tema in cui si ammicca a tanti potenziali ed improbabili gourmet. Lo fa affrontandolo direttamente e suggerendo al visitatore (ed al lettore) diverse chiavi di interpretazione che caratterizzano il suo itinerario.

Egli ha voluto soprattutto dimostrare come non ci siano sostanziali dualismi ed incompatibilità tra tutto quanto attiene il mondo della produzione e la libera creatività dell’artista che una sua spiccata ed autonoma visione delle cose, in occasioni ed in contesti importanti, finiscono per diventare simbolo di altro acquistando nuove significazioni. Potremmo dire che ci troviamo, soprattutto nel caso dei lavori più recenti, di fronte ad una sorta di intellettualismo polimaterico che non ha certamente come fine il compiacimento fine a se stesso.

Un rigore molto attento ad alcuni valori formali ma, nello stesso tempo assolutamente aperto alla utilizzazione dei materiali più inusuali attingendo a piene mani dal vasto mondo delle esperienze del lavoro di architetto.

Un occhio attento a cogliere le potenzialità dei materiali, utilizzando anche gli effetti della de-contestualizzazione dei vari oggetti dal posto dove noi siamo abituati ad incontrali, a servircene, magari a farne un punto fermo nel novero delle nostre abitudini visuali.

In alcuni lavori presentati l’autore ricorre all’uso di materiali, in genere carichi dell’esperienza e dei segni del lavoro umano, che sembrano andare in una direzione opposta rispetto alla tradizione. La proposta ottiene un risultato straniante e, nello stesso tempo, in possesso di una forza incredibile fatta di nuove ed impreviste valenze.

In genere si dice che tutti, popperianamente, "inciampiamo nei problemi" e quindi pensiamo alla loro soluzione. L’artista, analogamente, inciampa nei materiali e nella loro specificità riuscendo a mantenere una forte unità di linguaggio sia quando deve fare i conti con i vivaci cromatismi delle creazioni dei Guzzini sia con l’eloquenza silenziosa ed importante dei metalli della Cordivari. Tra le opere in catalogo il "Tavolo dei negoziati" in acciaio e cristalli che fa acquistare a questi materiali valenze tali da costituire una indubbia pulsione poetica e dialogica. Per non dire degli strumenti musicali e degli altri materiali della Proel, che acquistano insolite valenze in perfetta sintonia con un’altra eloquenza dell’anima. Strumenti musicali che diventano imbarcazioni per esaltanti viaggi dello spirito ma anche per imprese pericolose come accade sempre quando si è pronti a dirigersi oltre le colonne d’Ercole delle convenzioni acquisite. L’opera più esplicita, realizzata con avanzi di produzione della multinazionale della musica si chiama, significativamente, "Tavolo delle Concert-Azioni".

Un artista poliedrico Moroni, in possesso di molti registri espressivi che hanno trovato regolarmente un consenso ed una attenzione negli ambiti più qualificati, sia in quelli legati alla pittura, alla forza delle sue installazioni, che in altri dell’art design. Non a caso il suo nome è legato ad eventi importanti come la mostra di una vasta panoramica della sua produzione che ha richiesto tutto lo spazio della Villa Comunale Bertelli di Forte dei Marmi, nel 2011. Molta attenzione in seguito alla presenza all’ Ara Pacis di Roma nella grande mostra organizzata dalla Farnesina per celebrare i 150 anni dell’unità nazionale, nel corso della quale ha esposto i pezzi più pregiati della propria dotazione ed alcune altre opere tra le più significative del Made in Italy. In quel caso propose una lettura molto originale dell’intero territorio nazionale attuata con prodotti di Guzzini. Un lavoro che ha toccato molte nazioni come biglietto da visita che il nostro ministero degli esteri ha utilizzato come omaggio alla creatività ed al lavoro italiano. Sempre con l’uso di avanzi della produzione della stessa azienda, ha proposto una suggestiva "visione" del Duomo di Milano, capitale imprenditoriale dalle radici profonde.

Le opere dell’artista non potevano trovare accoglienza migliore che nell’ex fabbrica Aurum di Pescara, all’interno di un capolavoro architettonico realizzato dall’architetto Michelucci. In quell’occasione gli spazi principali furono tutti utilizzati per l’esposizione di istallazioni e dipinti, tra le quali, per la prima volta, una grande tela di nove metri lineari dedicata ad un tema come il terremoto aquilano, tornato di drammatica attualità alla luce del terribile evento che ha colpito il Nepal.

Le proposte dell’artista si inseriscono in un contesto che vanta illustri punti di riferimento. Si pensi ad un maestro come Tony Cragg che ci ha mostrato le sue sculture, cosa inedita, sulle terrazze del Duomo di Milano. Opere in sintonia con illuogo sacro ed animate da un evidente spirito anagogico, di aspirazione verso l’alto, in un tempo in cui le fughe più esaltate e pubblicizzate sono degli sprofondamenti e delle autodistruzioni. Non è semplice, e forse del tutto inutile, inquadrare rigidamente Moroni in una corrente. Più opportuno vedere dei riferimenti ulteriori, anche per una facilità di lettura.

Il lavoro di Mariano Moroni rappresenta, da molti punti di vista, un percorso originale ed assolutamente contemporaneo con una storia complessa, che si pone certamente anche nel solco dell’Arte Povera. Proprio il suo primo teorizzatore, Germano Celant, fin dalla sua fase aurorale, aveva sottolineato l’assoluta libertà del movimento ed aveva avuto una immediata proiezione di carattere internazionale che si impernia soprattutto sulla dinamica del "fare" piuttosto che sulla ricerca di semplici affinità formali che non porterebbe ad altro che riconoscere una egemonia artistica e critica da parte dei coevi movimenti statunitensi e l’imperio, anche in questo campo, di una superpotenza spalleggiata dalla forza del dollaro e della pubblicità efficace e mirata.

In una occasione più recente, trattando del modo tutto particolare, da parte dell’Arte Povera, di affrontare il tema dello spazio museale, ne sottolinea l’originalità e l’attualità, ragion per la quale è ancora oggi una corrente in sintonia con i tempi contemporanei (Germano Celant, Arte Povera 2011, Milano, 2011). Una attualità che ha, però, delle radici antiche, secondo lo studioso, nell’unica avanguardia internazionale del Novecento interamente e profondamente italiana, senza cadere nel più incapacitante dei localismi. La prima interpretazione del futuro, non a caso, sarà data non con una revisione degli schemi accademici, ma con la loro completa abolizione. Era il primo segno di quella nuova visione che avrebbe aperto le porte alle future opere per mezzo di installazioni sempre più efficaci e coinvolgenti. Celant evidenzia quanto il primato del futurismo sia indubbio perché sarà proprio Umberto Boccioni a fare "tabula rasa", nel Manifesto della scultura futurista, di tante convenzioni ed all’intuizione del futuro di nuovi materiali per i quali non era facile prevedere un futuro in ambito artistico, come nel caso di una nuova dignità intuita per il materiale plastico.

Appare evidente l’insieme delle ragioni per le quali Moroni appare fortemente in sintonia con le regole del "poverismo", per l’uso dei materiali che va dal ferro dei cantieri, alla plastica lavorata nelle aziende; dagli strumenti di lavoro fino alla nobiltà del legno - specialmente se nobile come quando ha una storia - come nel caso del "Tavolo dei negoziati n. 2", composto di caratteri tipografici in legno.

Una energia che continuamente si reinventa sotto nuove forme e con materiali che appaiono a prima vista improbabili ma che sorprendono per l’eloquenza muta delle proposte.

 

Una sorpresa ed un recupero

 

In occasione di questo appuntamento milanese, Moroni ha voluto proporre anche un viaggio intorno alla sua coscienza, con riproposizioni di carattere pittorico in cui sono presenti anche immagini che fanno riferimento alle proprie memorie personali ed alla propria storia di uomo. Un volersi mettere a nudo, tipico di chi da tempo ha acquisito la piena consapevolezza dei propri mezzi e si concede qualche vacatio dello spirito. Viene da pensare ad una soggettività libera in un lavoro di ricerca continuo che, pur rimanendo sempre tale, scopre nuove frontiere e, soprattutto, vuole essere sempre in armonia con la propria storia e con il proprio bagaglio emotivo.

Mentre, ad esempio, nel grande Anselm Kiefer (In particolare nella sua significativa presenza a Venezia presso il Museo della Fondazione Vedova), l’energia delle cose, dei materiali e dei paesaggi non lascia spazio alla figura umana, qui contrariamente all’eloquenza oggettiva delle installazioni, possiamo rinvenire un artista in possesso di una visione del mondo e della vita, nel quale appare particolarmente fort e l’aggancio con un patrimonio legato ad una visione privata, sia reale sia immaginaria.

Mariano Moroni farà certamente riflettere chi, oltre a rendere omaggio ad una qualificata proposta artistica, si interroga intorno alla nuove soglie della percezione estetica anche in presenza di forme espressive che vanno oltre i limiti della consuetudine del discorso stilistico. Nell’attività dell’artista non si propone un mondo poetico inquietante ma, casomai, come scriveva l’indimenticato Maurizio Sciaccaluga a proposito di Moroni "Una fantascienza drammaticamente futuribile, in cui il quotidiano si trasforma in sconosciuto"… "rischiando di assumere all’improvviso valori stra-ordinari, inconsulti."

Nei registri dell’artista ci sono certamente la capacità di esprimersi per mezzo dei materiali più vari ed apparentemente alieni dalla esperienza creativa. Indipendentemente dal linguaggio che viene adoperato. "Proprio per questa ragione - scrivevo nel 2011 - si può parlare di una metafisica delle cose che si ricollega ai primi segni dell’espressività umana, quella in cui l’artefatto ha un doppio valore: come oggetto e come simbolo".

Tra le opere ne troviamo una in particolare, la scultura "Senza titolo (The absence)", attraverso la quale l’artista è fortemente critico, proprio nei confronti del rapporto attuale tra l’uomo ed il cibo. Si tratta di abiti vuoti sulla sedia con una grande forma di parmigiano in tutta la sua gastronomica eloquenza. Il rapporto vuoto-pieno ha una valenza che arriva subito così come l’errata concezione di quello che dovrebbe essere il ben-essere, proprio in senso ontologico, appunto. Un modo dell’essere, personale e non un ennesimo trionfo dell’apparente sull’essenziale.

Le cose oltre le cose 

di Vincenzo Centorame



La vasta rassegna di opere di Mariano Moroni rappresenta una delle emergenze più interessanti di una stagione artistica tumultuosa. Le opere della mostra di Forte dei Marmi segnano le tappe di una intensa carriera e, in particolare, i risultati della ricerca più recente con alcune grandi lavori che sembrano annunciare altre stagioni di notevole interesse.

Mariano Moroni sembra aver tradotto in regola artistica personale l’antico principio filosofico secondo il quale "una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta". Egli visita le officine, scruta tra gli scarti di lavorazione ed i prodotti finiti, valuta ogni genere di materiale, osserva con ammirazione e curiosità gli strumenti delle maestranze nelle varie fasi del lavoro. Macchinari e oggetti abbandonati che testimoniano civiltà del lavoro e recano il segno, la fatica e la nobiltà dell’umano operare. L’artista medita su questa vastità di oggetti con un atteggiamento quasi visionario e trasforma le cose trasportandole in una sorta di iperuranio estetico.

Scarti metallici che diventano elementi di un paesaggio interiore e vecchi strumenti del lavoro, così come capi di abbigliamento che entrano a far parte di un paesaggio marino che reca sempre la presenza dell’uomo attraverso i segni della sua vita e della sua attività.

La ricerca artistica è certamente ispirata, già da molto tempo, ad una ricomposizione di quella contraddizione che colpisce gran parte dell’arte contemporanea e che si sostanzia in una frattura tra mondo della creatività spirituale e quello immanente del lavoro umano.

La nostra civiltà, come dice Ananda K. Koomaraswamy, separa rigidamente, spesso anche in ambito creativo, commettendo un grave errore, l’azione dalla contemplazione. Siamo giunti, anche in un recente passato, a concepire il lavoro dell’artista come una attività incompatibile con il mondo della produzione e con la maggior parte delle attività umane. Abbiamo corso il pericolo grave, per la prima volta nella storia, di realizzare una industria senza arte, quindi senza nobiltà, dignità e, conseguentemente, senza umanità.

Una scissione tra il fare ed il bello minaccia ogni nostra giornata ed allontana il momento estetico e quello contemplativo dalla vita ordinaria, fatta di lavoro manuale e di attività professionale di tipo intellettuale. Moroni sembra essersi posto questo obiettivo di ricomposizione, anche simbolica, di un dissidio tra due mondi dopo aver percorso, per anni , con maestria, l’itinerario dell’arte secondo i canoni accademici.

Egli si è appropriato degli oggetti materiali del lavoro umano, del suo lessico quotidia no fatto di cose ed oggetti ordinari, per riconsegnarli ad una sfera estetica e a una dignità più alte.

Quello di Moroni è un percorso originale, anche se certamente non estraneo alle problematiche di una stagione complessa di ricerca delle avanguardie più qualificate. Questa epoca delle cosiddette estetiche postmoderne, nel filone delle nuove tendenze, si è caratterizzato per un duplice livello: avanguardie come "progettazione" e avanguardie come "problema". Mariano Moroni, in questo contesto, utilizza la vasta gamma dei linguaggi delle avanguardie: iconico e aniconico, servendosi della pittura ma non disdegnando la fotografia, artigianale e tecnologico.

La sua è una narrazione che si serve di una coesistenza di linguaggi e di un nuovo vocabolario artistico. L’artista non si limita ad evocare il lavoro umano ma parla anche della sua poesia e del suo dramma. Come nel caso della grande tela di nove metri in cui gli oggetti concreti raccontano la tragedia del terremoto e ne fanno rivivere la tensione e l’incubo. Con una poetica nuova, con materiali che sono ancora caldi della vita e della manipolazione umana. Con gli oggetti dell’esistenza ordinaria, i segni del quotidiano con gli interrogativi, le pause, i silenzi e le evocazioni.

Un lavoro intenso e continuo alla ricerca di senso attraverso i segni materiali della ritualità contemporanea ed il linguaggio della realtà e la verità delle cose. Ecco perché "le cose oltre le cose". Una metafisica che evoca un significato ulteriore ed "altro" rispetto al semplice "regno della quantità".

Quella di Moroni è una innovazione che procede però lungo i binari dei valori formali; la sua problematicità rispetta sempre i parametri fondamentali dello spazio e quello della luce. In questo viaggio anagogico egli, soprattutto nelle ultime grandi opere, trasforma il suono e l’armonia delle chitarre di Segovia in luce e in nuovi dinamismi che percorrono lo spazio ed il tempo e si propongono come strumento di nuove concertazioni: incontri di uomini nel segno della bellezza e della concordia. E quale armonia può essere più alta e spirituale di quella della musica?

I segni della massificazione e dell’omologazione vengono trasformati in strumenti e cifre della poesia; oggetti che sembrano irrimediabilmente muti si trasferiscono attraverso l’intensità solo apparentemente omologante del bianco in un "altro" in cui il significato originario dell’oggetto diventa storia passata ed evanescente per assumerne uno più alto. Le grandi cinghie usurate di un cantiere, i piani con i caratteri mobili di una vecchia tipografia perdono la loro funzione ed acquistano nuovi significati.

Proprio per questa ragione si può parlare di una metafisica delle cose che ci ricollega ai primi segni dell’espressività umana, quella in cui l’artefatto ha un doppio valore: come oggetto e in quanto simbolo.

Mariano Moroni

di Enrico Mattei



La tradizione di utilizzare oggetti recuperati per trasformarli in opere d’arte parte dal 1917, quando Marcel Duchamp espone in un’importante mostra pubblica a New York un orinatoio capovolto, firmato con uno pseudonimo e intitolato Fontana. Una provocazione che aprì la strada al concetto di ready made, oggerto trovato e molto spesso recuperato, che una volta inserito in un contesto artistico può assumere significati politici, sociali e commerciali.

Il vagare tra le officine e tra gli scarti di materiale industriale porta Mariano Moroni ad interpretare gli oggetti scartati, finiti per il loro uso oppure danneggiati dall’usura del tempo, e gli oggetti nuovi, pronti per un uso indipendente o come elemento, tassello di un progetto più grande, come singolarità potenzionali per essere elevate nel loro insieme, sotto la mano dell’artista, al mondo dell’arte contemporanea diventando opera.

Gli intenti sono i più vari, così pure i linguaggi; anche gli scarti appartengono a tipologie che vanno dai puri materiali, come legno o plastica, a oggetti utilizzati per ciò che sono, o rielaborati fino a diventar irriconoscibili. L’idea della trasformazione/riuso/recupero è quanto di più duttile ci sia, e si offre a illimitate varianti. Non occorre produrre continuamente ‘altro’, che sia possibile rigenerare ciò che c’è; via dalla logica dell’usa-e-getta praticata senza attenzione dalla cultura consumistica. Ma non è solo questo: sottrarre allo scarto definitivo e prolungare la vita di ciò che pareva aver concluso il suo ciclo vitale ed economico è atto poetico per eccellenza.

Mariano Moroni è un sognatore ad occhi aperti che vede nella miriade di queste occassioni mancate quotidianamente un riuso che possa diventare di natura estetica, "oggetti trovati", reperti usciti dal mondo di natura o da quello degli utensili e caratterizzati da un qualche grado di bizzaria, stranezza, forza di impatto sensoriale; oggetti, in ogni caso, esteticamenti rilevanti, in quanto capaci di stimolare in noi la reazione del bello, del brutto, del sublime, del volgare, del ributtante, del provocante. Dall’artistico, in questi casi si passa all’antiartistico, laddove Moroni, per sua stessa natura, punta all’antiartistico, o forse meglio ancora all’anestetico; si ripromette, quasi per scomessa, di proporre come oggetto esteticamente rilevante un prodotto banalissimo di serie che sembrerebbe essere il più possible anonimo e irrilevante, Così facendo, l’artista, distrugge ogni residua fiducia nelle qualità oggettive del valore artistico-estetico, vuole invece dimostrare che esso è il frutto di una convenzione, o quasi di un’autodichiarazione; basta volerlo, emanare una "intenzione" in tal senso, e tutto può divenire "opera d’arte", il che è, ancora una volta, un modo per rinforzare la dimensione noetica. Quello che conta, è il coefficiente mentale che permettiamo a qualsivoglia esperienza, la quale può seguire il suo normale decorso pratico-utilitario, ma può anche essere dirottata, "straniata su altri binari, e allora, anche senza che nulla muti nel suo assetto fisico, essa entra nella sfera del valore estetico.

Non sono pochi i capolavori entrati nelle collezioni dei grandi musei del mondo dopo aver raggiunto quotazioni da capogiro. Come i combine paintings di Robert Rauschenberg, realizzati con i materiali più disparati, dalle vecchie tavole da surf ai tubi da doccia. Una carrellata che va dalla Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto, alle installazioni dell’artista coreano Nam June Paik, eseguite con decine di vecchi televisori, o ai profili di figure umane composte da centinaia di pezzi di plastica colorata che hanno fatto la fortuna dell’artista britannico Tony Cragg. Per non parlare dei primi dipinti dell’americano Julian Schnabel, con ritratti di persone fatti con decine di piatti di ceramica frantumati.

Per riciclare gli scarti nelle opere d’arte ognuno ha avuto il suo metodo: l’artista francese Arman ha raccolto vecchi pennelli, violini scassati, utensili da cucina per immergerli in blocchi di plastica trasparente, l’americano John Chamberlain ha compresso le carrozzerie di vecchie macchine per trasformarle in sculture metalliche, mentre il nostro Pino Pascali costruiva negli anni Sessanta cannoni con coperchi di pentole e ponti sospesi con pagliette metalliche per lavare i piatti. Un vero e proprio monumento al riciclo è la Scultura che mangia l’insalata di Giovanni Anselmo, protagonista dell’Arte Povera: un cespo di insalata fresca legata in cima ad un blocco di marmo appoggiato per terra con sotto della segatura, frutto della sua digestione, mentre negli anni Cinquanta un altro italiano, Alberto Burri, incollava su grandi tele dei sacchi di juta, slabbrati e ricuciti, per ricordare le ferite dei soldati caduti in guerra.

Una tradizione che tende a rafforzarsi, colorandosi di significati politici e sociali ancora più evidenti, negli anni Novanta, quando il numero degli artisti che si avvale di materiali recuperati cresce a dismisura. Il loro paladino è l’inglese Damien Hirst, balzato agli onori della cronaca per aver esposto squali in formalina e mucche segate in due: i suoi quadri realizzati con migliaia di mosche morte hanno raggiunto quotazioni milionarie. Un altro artista affezionato, ma in versione politically correct, è l’afroamericano David Hammonds, che compone oggetti quotidiani con riccioli di capelli, o la libanese Mona Hatoum, che ha esposto una collana fatta interamente di capelli. L’immondizia è anche fotogenica: lo ha scoperto l’artista tedesco Andreas Gursky, che ha prodotto una immagine formato gigante di una discarica di immondizia in Messico, dove si aggirano cani randagi e vagabondi. C’è anche chi ricicla posate, piatti e pentole per raccontare la contraddittoria realtà del suo paese con un grande teschio costruito con vasellame di alluminio dall’artista indiano Subodh Gupta, mentre lo svizzero Costa Vece raccoglie mutande, magliette e camice con cui fabbrica bandiere riciclate dei paesi di tutto il mondo.

Per non parlare del peruviano Jota Castro, con le sue scritte politiche fatte con i diversi modelli di scarpe da ginnastica Nike, o dell’inglese Cornelia Parker, che costruisce delle suggestive installazioni con oggetti riciclati sospesi nell’aria.

Patrick Mimran ha scritto che "l’arte è oggi dove non ti aspetti di trovarla", e Mariano Moroni invece è ben consapevole dove trovare ciò che diverrà la sua arte, oggetti che andranno sulle tele e saranno ricoperti da un vasto campo di interventi pittorici, quasi sul monocromo, cui spetta il compito di riassorbire le presenza tridimensionali, di renderle meno vistose o scandalose.

Qualche volta gli oggetti inseriti sono realmente bruti o volgari, ma più spesso non sono altro che stereotipi, nel senso proprio della parola.

Il tempo corre, e Mariano Moroni lo sa bene che la tecnologia informatica, infatti, avanza rapidamente: in pochi mesi i core dei processori crescono e le schede madri invecchiano ad una velocità impressionante. I passi da gigante dell’hardware dei pc hanno però un inevitabile effetto collaterale: con altrettanta rapidità infatti diventano spazzatura che sarebbe meglio riciclare. Ed allora subentra il pensiero che scaturisce l’idea della concretezza del tutto,

le opere si presentano come installazioni costituite da un insieme che racconta se stesso, assumendo altre sembianze. L’artista da alcuni anni e oggi più che mai, si dà a riflessioni serie, pensa alla fine degli oggetti che li hanno portati verso la "morte". Non che non ci abbia mai pensato ma questa volta lo fa in modo chiaro e diretto. "La morte è un soggetto straordinario, l’unico che abbia lo stesso peso della vita. Se vuoi parlare della vita devi pensare prima alla morte", diceva Maurizio Cattelan. Noi essere umani siamo forse le uniche creature intimamente consapevoli del fatto che dovranno morire, anche quando la morte non è imminente, questo fa in modo che Moroni pensi alla creazione come una messa in opera che diventa l’inizio della morte di quella idea progettuale che esternandosi, cioè prendendo forma e diventando installazione, inizia un suo processo autonomo, una nuova vita. Questo fa venire meno l’intimità propria, avviene come un rifiuto, non la si riconosce, scaturita dall’interiorizzarsi della mente decade come ogni forma di vita. Il visitatore che si trova di fronte al lavoro, deve contribuire al suo rinascere dall’inutilità della materia. Durante la realizzazione avviene una perdita della centralità, il racconto, molto spesso ispirato da avvenimenti reali, è affrontato da subito mantenendo una certa distanza, in modo che il fine ultimo del lavoro si concretizzi attraverso i molteplici soggetti che gravitano ai margini, sfiorandone appena la verità ed allontanandosi premeditatamente dall’accaduto, il tutto cambia la forma.

Il risultato che si avverte è un insieme abbandonato, scomposto, inadeguato, un caos lieve che nasce, invece, da un calcolo ordinato, un disordine organizzato, un’anarchia da assimilare. Forse è tempo di fare meno rumore, infatti è un lavoro silenzioso, che bisognerebbe osservare con un po’ di raccoglimento. Un concetto che esprime un senso di fragilità, di dispersione, oggetti indifesi e sfiniti, così disgregati ed inermi da sembrare che nulla si possa più fare per loro, ma tutto è semplicemente apparente. La forza delle installazioni è invincibile e nasce proprio da questo arrendersi, proprio in questo subire attivo, è come se dicessero: "stiamo generando nella nostra completezza un’opera unica".

Il fine, diventa un enigma, le immagini sono collegamenti, è come se ci fosse un cuore, una centralità e tutto corre intorno ad un disordine organizzato che si trasforma dove non c’è possibilità di errore. L’arte è anche questo, la cura artigianale che prolunga l’esistenza in opposizione alla mercificazione diffusa. Noi moriremo, ma forse l’arte resterà.



Fantapaesaggi

di Maurizio Sciaccaluga



E’ l’apologia del mestiere di pittore ciò che Mariano Moroni ha messo in scena nelle sue installazioni più recenti. Anzi, a voler essere più precisi, e a costo di potersi tuffare nella provocazione e nel paradosso, si tratta di una simbologia dedicata al paesaggio, a quella rappresentazione del mondo e dell’orizzonte che da sempre ha preoccupato e affascinato artisti di tutte le epoche. Solo che l’autore ha scelto di non replicare su tela la realtà, e nemmeno di ricrearne ex novo un’immagine credibile e possibile; invece che guardarsi attorno e cercare ispirazione nell’esistente, ha voluto pensare ed edificare un proprio paesaggio, un territorio alieno e intimo che ha poco di conosciuto e molto di inconsueto. Non si è rifatto all’olio e alla prospettiva, piuttosto ha preferito usare fisicamente gli strumenti dell’arte – tutti gli strumenti dell’arte, dai tubetti di colore ai floppy disk, dai diluenti alle taglierine ai blocchi per appunti – per dare vita a un universo tangibile e alternativo, tridimensionale, a metà strada tra la ragione e la fantascienza. Una fantascienza drammaticamente futuribile, in cui il quotidiano si trasforma in sconosciuto, dove le coordinate usali, di sempre, rischiano di assumere all’improvviso valori stra-ordinari, inconsulti, preoccupanti. Nelle mani di Moroni gli oggetti di scarto, le cose senza senso e senza fascino – che cadono ogni momento sotto gli occhi senza riuscire mai a farsi notare, a conquistare una soglia minima di attenzione – diventano parte di una realtà spettacolare, da guardare a bocca aperta, aspettando il colpo di scena, la rivelazione asimoviana tipica del mondo estremo e diverso. Messi uno accanto all’altro, verniciati completamente di bianco, ripresi e mostrati dall’alto – come visti attraverso una panoramica a volo d’uccello – block-notes banalissimi e usuali diventano simili a capannoni post-nucleari, rifiuti elettrici senza valore assumono la forma inquietante di gigantesche fabbriche di chissà quali materiali. Una vite filettata è la ciminiera incombente di questa galattica città del futuro,

e una scatola vuota è lo smisurato cortile dove alte mura racchiudono e nascondono alla vista inimmaginabili segreti. Osservare l’opera è come rivivere una scena da Starship Troopers, è come riguardare le sequenze di quei mitici B-movie degli anni Sessanta grazie a cui l’immaginario collettivo della realtà a venire finì per essere popolato da edifici strani e disarmanti, da panorami inquietanti, da verità i ncon-

te. Pellicole girate con poco, con mezzi anche risibili e di facile reperimento, ma ricchissime di fantasia e di libertà, di voglia d’improvvisazione e di scoperta. La stessa libertà e voglia di scoperta di un tavolino dove un tubetto, alcuni pezzi di legno e una corda riescono a formare uno scenario in cui perdersi, dove aggirarsi con l’atteggiamento dell’esploratore, con il desiderio di non perdere nulla e di non farsi mai cogliere di sorpresa. La stessa fantasia e capacità d’improvvisazione di un quadro dove pezze di tela bianca si fanno territori, lande immense e incontaminate, e un cumulo di rami diventa una barriera insormontabile, una catena montuosa marziana, il greto immenso d’un fiume lavico nemmeno immaginabile. Moroni lascia galoppare l’ingegno, si pone un limite dopo l’altro – nella forma della rinuncia al pennello, al disegno, alla descrizione, al racconto strutturato – per poter tirar fuori dallo spettatore una fantasia quasi infantile, adolescenziale, inarrestabile. Costruisce e regala una serie di spunti, un canovaccio, sopra i quali ricamare le trame di vicende impossibili, di paesaggi mai visti prima. Resta sul vago, si limita a dare qualche suggerimento, affinché nel suo lavoro entrino prepotentemente in gioco l’intuizione e, perché no, la follia di chi guarda, di chi ha voglia d’essere catturato dalla creazione. Ci sono un mondo lontano fatto di niente, un territorio inesplorato fatto di corde e di legna, un ambiente ostile e sconosciuto fatto di tubetti e boccette: la trama, i personaggi e il dramma è però ancora da fare. E tocca a chi osserva darsi da fare al riguardo.



Immagini danzanti

di Maurizio Sciaccaluga



Morbidi, aerei, leggeri. Sospesi nel vuoto, immobilizzati nel bianco assoluto di un’improbabile posa da balletto contemporaneo, alla Cunningham o alla Moses Pendleton. I vestiti che Mariano Moroni ha eletto a protagonisti di uno dei cicli di opere più recenti sembrano mettere in scena una strana e originalissima danza degli spettri, dove - ovviamente - fulcro della rappresentazione è proprio l’assenza del corpo. Liberatisi del peso delle carni, graziati dalle imperfezioni del fisico, fuggiti dal giogo delle membra e delle posture umane, gli abiti volteggiano in uno spazio senza tempo e senza confini, in cui ogni movimento appare motivo solo dalla grande felicità per la libertà appena riconquistata.

Si tratta di passi a due estremamente drammatici, di figure e volteggi tutt’altro che disincantati e spensierati - visto che nascono dalla fine dell’uomo, dalla sua probabile scomparsa (perlomeno dallo spettacolo) - eppure in quessti fantasmi, in questi ectoplasmi, in queste ombre candidissime e smunte risulta impossibile non notare una leggiadria fuori dall’ordinario, un’eleganza capace di lasciare sbalorditi. I quadri parlano di perdite, di smarrimenti, di distruzioni, ma niente nella composizione conduce verso la disperazione, l’angoscia o l’afflizione. Il dramma è quasi cantato, attraversato con malinconica rilassatezza. Pur con tutta la concretezza delle stoffe indossate in passato, pur con l’innegabile evidenza di punti e cuciture, pur con tutti i carichi e i rimandi sempre legati agli objet trouvé, Moroni dà vita a una sorta di surreale ballo in maschera dove il confine tra verità e finzione, tra vita e teatro, tra attore e personaggio è sempre molto labile e incerto, e le atmosfere create dalle opere possono essere valutate, senza soluzione di continuità, sia terribili che amabili. Praticamente, qualcosa di simile a quanto evocato dalla pellicola disneyana Fantasia, con la paura e l’allegria sempre pronte a scambiarsi di posto, a succedere l’una all’altra naturalmente e senza stacco alcuno.

Non si tratta, chiaramente, di un’eccezione alla regola, né per quanto riguarda gli spettri né per quanto concerne l’allegra disperazione.

Tutta la ricerca di Moroni è concentrata sull’allontanamento degli oggetti dall’uomo, sulla costruzione di una distanza effettiva, materiale e quantificabile tra le cose e chiunque le abbia possedute o utilizzate. L’artista non cancella i segni, i rapporti, le affinità tra l’uomo e l’ambiente che gli grava attorno, anzi nei suoi quadri trasforma queste tracce spesso puramente mentali in colore e in materia, ma comunque riesce a isolare gli oggetti dai loro proprietari, ha successo nell’impresa di tagliare il cordone ombelicale tra l’ambiente e chi lo abita.

Ogni sorta di oggetti, quasi unti dal contatto che hanno avuto in precedenza con l’uomo, si ritrovano sul piedistallo dei quadri, e da qui raccontano del loro nuovo status. Per la prima volta narrano se stessi, si mettono in gioco senza doversi rifare ai gusti, alle abitudini e ai costumi di chi li utilizzava. E in questo progressivo distacco dalle carni e dai pensieri umani, in questo allontanamento dalle logiche del mondo e della quotidianità, il racconto che giunge, o potrebbe giungere, alle orecchie degli spettatori è quello di una raggiunta solitu dine, di una perdita irrimediabile. Le camicie di tanti lavori sono schiacciate dal peso (il colore) degli avvenimenti passati, sono incollate ai loro pregressi destini, ma appaiono anche innegabilmente vuote, sgonfie, povere di ossa e di averi. Non sono più serve d’uno stile, non sono più assoggettate a un corpo e a delle misure, e finalmente, nonostante quest’assenza pesi terribilmente nella composizione finale delle opere, possono urlare la loro libertà. Ma è la libertà degli spettri, di quei fantasmi che - tutt’uno con l’aria, sgravati della gravità, eterni e alati - non vogliono rassegnarsi a una condizione che sembra in tutto e per tutto migliore della precedente (che continuano a rimpiangere).

Pur partendo come Duchamp e Tinguely dalle piccole vestigia quotidiane, da quei minimi relitti e da quei cadaveri inor-ganici che il consumismo si lascia con noncuranza alle spalle ogni giorno - riempiendo di oggetti oramai insignificanti discariche e negozi di robivecchi - Moroni nei suoi assemblaggi rinuncia al sarcasmo e all’ironia, alla critica caustica e superficiale, nel nome di una malinconia onnipresente capace sempre di sottolineare quel senso di smarrimento che accompagna la crescita e il destino di ogni uomo. Che, adolescente, è destinato a perdere il bambino che è stato; che, adulto, finirà col non riconoscere più l’adolescente d’un tempo; che, vecchio, non potrà che scordare l’uomo di qualche anno prima. L’artista mette in risalto questa continua perdita d’oggetti, d’ambienti e d’identità, e la raffigura con una partecipazione emotiva forte e vibrante: mentre esalta la concretezza e la novella indipendenza di questi oggetti finalmente solitari e assoluti, nota anche, con dispiacere, la lontananza degli uomini, l’affievolirsi e lo scomparire di grida e gesti che questi oggetti hanno sempre accompagnato. E cerca di edulcorarla, di riesumarla. Nei lavori il colore non è campitura, non è equilibrio di toni, non è messa in relazione di volumi e stesure; i rossi, gli azzurri, i bruni e i grigi, spesso scurissimi, rappresentano ed evocano le sensazioni legate alle cose, le emozioni indissolubilmente concatenate a un elemento o a un gesto della quotidianità. Se da una parte esalta gli oggetti fini a se stessi, privati dell’uomo che li ha sempre sottomessi e relegati a ruoli da comprimarii nella recita della vita, dell’altra Moroni non intende affatto posizionarli su un piedistallo, trasformarli nel monumento di se stessi. Anzi, col colore, col tratto delle pennellate, con una composizione ricca di sensazioni e sollecitazioni, tenta ancora di legare a cose inanimate le animose passioni umane, gli amori e le risse, i desideri e gli abbandoni. Per far in modo che quegli spettri che popolano il lavoro non smettano mai di danzare.



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